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Le rappresentazioni della figura umana nell’Antichità: archetipi inconsapevoli nel segno dei corpi di Gianni Pitta?

di Elena Antonacci (Direttore del MAT di San Severo)
Le forme umane astratte di Gianni Pitta  ed il loro carattere primitivo portano con sé, consciamente o inconsciamente, una storia che si avvolge indietro fino ad arrivare all’arte cicladica, quell’arte che si sviluppa dal 3000 a.C. in poi nelle isole Cicladi, un arcipelago del Mediterraneo, che in questo periodo si arricchisce grazie agli intensi traffici commerciali di prodotti quali l’ossidiana di Milo, il rame di Sifno.
L’arte che fiorisce in queste isole ha le stesse peculiarità di quelle di altri popoli delle prime età storiche: idoli in marmo caratterizzati da una schematizzazione che guarda all’essenzialità geometrica piuttosto che alla mimesi naturalistica.
Le figure sono rese a vari livelli di stilizzazione: grossolani idoli a forma di violino, il collo e la testa ridotti ad un cilindro; teste schematizzate in cima ad un lungo collo, triangolari e segnate solamente dallo spigolo del naso; torsi trapezoidali; alcune volte è il viso che ha il sopravvento nella raffigurazione umana, un viso in cui compaiono gli occhi e la bocca; un’altra volta è il dorso della figura che si fa vivo.
Anche l’arte minoica, diffusasi nell’isola di Creta, con le sue figure umane rudimentali con lunghe braccia e grandi mani dipinte sui vai (si pensi ad un frammento di vaso del 1800 circa a.C., al Museo di Hiraklion), è inconsapevolmente presente nelle primitive figure umane di Pitta.
Opere, quelle dell’antico mondo greco, di un’incontestabile bellezza, per la vita che le anima ed anche per un certo senso caricaturale.
La stessa vita che anima il repertorio figurativo di Gianni Pitta, carico di spunti ironici e grotteschi.
Le braccia alzate ed allungate delle figure di Pitta sono le stesse delle statuette micenee in terracotta, dette a Psi, del XIV-XIII secolo a.C. esposte al Muséè du Louvre di Parigi; gli occhi rappresentati senza proporzione da grandi cerchi con punto all’interno del nostro Artista sono gli stessi che ritroviamo nella raffigurazione di un cratere miceneo con  due personaggi su carro, da una tomba di Dan del XV secolo a.C., conservata nel Museo di Gerusalemme.
Le numerose facce animalesche e selvagge del repertorio di Pitta, dai grandi occhi in cui vengono esaltate le grandi e penetranti pupille e le bocche dai vistosi denti digrignati hanno forse lo stesso significato apotropaico delle teste di Gorgoni che adornano coppe del periodo orientalizzante: un puntuale confronto è ad esempio rappresentato da una coppa da Rodi dell’ultimo quarto del VII secolo a.C., esposta al British Museum di Londra.
L’età classica dell’antica Grecia proseguirà il suo percorso con esempi di un’arte in cui la figura umana è sempre più mimesi naturalistica, fino a diventare rappresentazione ideale del Bello e sempre meno essenzialità astratta.
La rappresentazione della figura umana della Grecia classica, con i suoi stilemi,  è quanto di più lontano esista dalle figure crude e primitive di Gianni Pitta.
La cultura figurativa di Pitta, sottesa alle sue primitive raffigurazioni, rinvia invece a numerosi documenti della sua terra, l’antica Daunia.
Una ricca e complessa decorazione parietale del tardo Paleolitico, incisa nel riparo sotto roccia di Sfinalicchio, nel territorio di Vieste, reca una figura con corpo trapezoidale e due sporgenze laterali che potrebbero corrispondere a braccia levate: il soggetto potrebbe evocare una delle prime immagini nel Gargano di un antropomorfo ammantato.
Ancora archetipi presenti nella pittura di Pitta potrebbero essere costituiti dalle figure femminili stilizzate neolitiche di Passo di Corvo (Foggia) o Canne (fine VI – inizi IV millennio a.C.), riconducibili a matrici ideologiche comuni dell’età neolitica, che rinviano a significati di fecondità e fertilità.
I totem di Pitta sembrano rinviare poi ai significati simbolici ed astratti legati alla sfera del culto delle stele antropomorfe della nostra età del Rame (III millennio a.C.) diffuse nel territorio di Bovino e Castelluccio dei Sauri.
Gli occhi evidenziati con una profonda incisione nelle teste iconiche litiche della I Età del Ferro (fine X – inizi IX secolo a.C.) rinvenute prevalentemente nell’antico abitato di Monte Saraceno, sul Gargano, ed il pronunciato naso, hanno la stessa pregnanza simbolica degli occhi e dei grandi nasi dei volti dipinti da Pitta.
Sicuramente non sono estranee agli ancestrali modelli figurativi le “sformate immagini in bronzo” con figure antropomorfe bronzee appartenenti ad uno dei più noti rinvenimenti dell’VIII-VII secolo a.C. effettuati nel territorio di Lucera: il celeberrimo Carrello di Lucera, che subì, dopo il rinvenimento agli inizi del XIX secolo, dispersioni ed ora è in gran parte conservato presso l’Ashmolean Museum, University of Oxford: cacciatori e guerrieri deformati, simboli di una primitiva società agricolo-pastorale, sembrano riecheggiare nei soggetti virulenti di Pitta.
Le fatiche quotidiane che si leggono nelle raffigurazioni di uomini incise sulle stele daunie (VII-VI secolo a.C.), forse tra i documenti archeologici più rappresentativi dell’antica Daunia, sono le stesse che si leggono nei corpi densi di pathos di Gianni Pitta.
La medesima forza emotiva degli uomini, pur a distanza di oltre due millenni, ha gli stessi codici rappresentativi: le braccia abnormemente allungate e spesso sollevate a significare le difficoltà del vivere, le mani rappresentate da dita aperte, ascrivibili sia a forme di rappresentazione primitive, ma anche all’istintualità irrazionale insita nell’uomo, che spesso lo allontana dalle imposizioni della razionalità; i capelli irsuti delle stele daunie esposte al Museo Nazionale di Manfredonia e quelli delle figure umane di Pitta rinviano entrambi sì a modelli referenziali di estrema elementarità, ma soprattutto a profondi stati d’animo in cui la paura del vivere è predominante.
Lo spazio temporale solo apparentemente esistente tra le antefisse con Gorgone di tipo orrido, ora ammirabili al MAT di San Severo, antefisse che adornavano i tetti in terracotta delle domus daunie di fine VI – inizi V secolo a.C., avvicinano i totem dell’Artista contemporaneo ai particolari di tipo orrido di quelle stesse antefisse; i reconditi fini apotropaici dell’oggetto antico, che si avvale degli stessi codici rappresentativi usati da Gianni Pitta: bocche mostruose con denti quasi ferini in evidenza fanno arrivare tutte, sia quelle antiche che quelle contemporanee, alle nostre più profonde viscere lo stesso senso di inadeguatezza dell’io, la sofferenza dell’oggi e la paura del domani da parte dell’uomo, antico o moderno che sia.
Alla fine si coglie, nella prorompente vitalità espressiva delle immagini di Giani Pitta, il modo per interrogarsi sugli aspetti escatologici: la vitalità estrema delle figure umane di Pitta, con i suoi colori grondanti, non sono altro che sofferenza che gronda emozione e che si interroga sul fine ultimo della nostra esistenza, come lo fa l’uomo dell’antica Daunia attraverso i suoi simbolismi ideologici e le rappresentazioni del sé che cogliamo nelle stele daunie e nelle antefisse con Gorgoneion di tipo orrido.
Ma non è pessimistica la visione dell’uomo: la rigenerazione e la rinascita delle immagini del nostro Artista è la stessa rappresentata dalle statuette raffiguranti la Grande Madre del VI e V millennio a.C. del nostro territorio daunio, dagli idoli cicladici di circa 5.000 anni fa, dalle stele-totem di Bovino e Castelluccio dei Sauri, dalle statuette fittili micenee del XIV-XIII secolo a.C., dalle “sformate figure di bronzo” del carrello di Lucera, figure antropomorfe in cui le lunghe e sproporzionate braccia sollevate in avanti appartengono ad una visione del mondo in cui il ciclo della vita vuol dire rinascita.
L’Antichità e l’Archeologia: archetipi inconsapevoli nelle opere di Gianni Pitta?
Sicuramente gli appartiene la medesima “fatica del vivere”, le medesime modalità per esorcizzare la morte e la sofferenza quotidiana sottese alle rappresentazioni della figura umana del mondo antico.
E, come per gli uomini dell’Antichità, il suo sguardo è rivolto in avanti e non all’indietro.
Ed in questo modo i simboli del repertorio figurativo presenti nei documenti archeologici entrano di diritto a far parte dell’inconscio mondo inspiratore dei sofferti corpi di Gianni Pitta e dei suoi incisivi segni grondanti.

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