googleaolamazon.comyahoo.combaidugoogleaolamazon.comyahoo.combaidu Gianni Pitta http://www.giannipitta.it Opere d'arte - pittura e installazioni Thu, 28 Jul 2016 09:53:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.5.31 Le rappresentazioni… http://www.giannipitta.it/2015/09/21/le-rappresentazioni-della-figura-umana-nellantichita-archetipi-inconsapevoli-nel-segno-dei-corpi-di-gianni-pitta/ http://www.giannipitta.it/2015/09/21/le-rappresentazioni-della-figura-umana-nellantichita-archetipi-inconsapevoli-nel-segno-dei-corpi-di-gianni-pitta/#respond Mon, 21 Sep 2015 15:10:19 +0000 http://www.giannipitta.it/?p=335 Le rappresentazioni della figura umana nell’Antichità: archetipi inconsapevoli nel segno dei corpi di Gianni Pitta? di Elena Antonacci (Direttore del MAT di San Severo) Le forme umane astratte di Gianni Pitta  ed il loro carattere primitivo portano con sé, consciamente o inconsciamente, una storia che si avvolge indietro fino ad arrivare all’arte cicladica, quell’arte che…

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Le rappresentazioni della figura umana nell’Antichità: archetipi inconsapevoli nel segno dei corpi di Gianni Pitta?

di Elena Antonacci (Direttore del MAT di San Severo)
Le forme umane astratte di Gianni Pitta  ed il loro carattere primitivo portano con sé, consciamente o inconsciamente, una storia che si avvolge indietro fino ad arrivare all’arte cicladica, quell’arte che si sviluppa dal 3000 a.C. in poi nelle isole Cicladi, un arcipelago del Mediterraneo, che in questo periodo si arricchisce grazie agli intensi traffici commerciali di prodotti quali l’ossidiana di Milo, il rame di Sifno.
L’arte che fiorisce in queste isole ha le stesse peculiarità di quelle di altri popoli delle prime età storiche: idoli in marmo caratterizzati da una schematizzazione che guarda all’essenzialità geometrica piuttosto che alla mimesi naturalistica.
Le figure sono rese a vari livelli di stilizzazione: grossolani idoli a forma di violino, il collo e la testa ridotti ad un cilindro; teste schematizzate in cima ad un lungo collo, triangolari e segnate solamente dallo spigolo del naso; torsi trapezoidali; alcune volte è il viso che ha il sopravvento nella raffigurazione umana, un viso in cui compaiono gli occhi e la bocca; un’altra volta è il dorso della figura che si fa vivo.
Anche l’arte minoica, diffusasi nell’isola di Creta, con le sue figure umane rudimentali con lunghe braccia e grandi mani dipinte sui vai (si pensi ad un frammento di vaso del 1800 circa a.C., al Museo di Hiraklion), è inconsapevolmente presente nelle primitive figure umane di Pitta.
Opere, quelle dell’antico mondo greco, di un’incontestabile bellezza, per la vita che le anima ed anche per un certo senso caricaturale.
La stessa vita che anima il repertorio figurativo di Gianni Pitta, carico di spunti ironici e grotteschi.
Le braccia alzate ed allungate delle figure di Pitta sono le stesse delle statuette micenee in terracotta, dette a Psi, del XIV-XIII secolo a.C. esposte al Muséè du Louvre di Parigi; gli occhi rappresentati senza proporzione da grandi cerchi con punto all’interno del nostro Artista sono gli stessi che ritroviamo nella raffigurazione di un cratere miceneo con  due personaggi su carro, da una tomba di Dan del XV secolo a.C., conservata nel Museo di Gerusalemme.
Le numerose facce animalesche e selvagge del repertorio di Pitta, dai grandi occhi in cui vengono esaltate le grandi e penetranti pupille e le bocche dai vistosi denti digrignati hanno forse lo stesso significato apotropaico delle teste di Gorgoni che adornano coppe del periodo orientalizzante: un puntuale confronto è ad esempio rappresentato da una coppa da Rodi dell’ultimo quarto del VII secolo a.C., esposta al British Museum di Londra.
L’età classica dell’antica Grecia proseguirà il suo percorso con esempi di un’arte in cui la figura umana è sempre più mimesi naturalistica, fino a diventare rappresentazione ideale del Bello e sempre meno essenzialità astratta.
La rappresentazione della figura umana della Grecia classica, con i suoi stilemi,  è quanto di più lontano esista dalle figure crude e primitive di Gianni Pitta.
La cultura figurativa di Pitta, sottesa alle sue primitive raffigurazioni, rinvia invece a numerosi documenti della sua terra, l’antica Daunia.
Una ricca e complessa decorazione parietale del tardo Paleolitico, incisa nel riparo sotto roccia di Sfinalicchio, nel territorio di Vieste, reca una figura con corpo trapezoidale e due sporgenze laterali che potrebbero corrispondere a braccia levate: il soggetto potrebbe evocare una delle prime immagini nel Gargano di un antropomorfo ammantato.
Ancora archetipi presenti nella pittura di Pitta potrebbero essere costituiti dalle figure femminili stilizzate neolitiche di Passo di Corvo (Foggia) o Canne (fine VI – inizi IV millennio a.C.), riconducibili a matrici ideologiche comuni dell’età neolitica, che rinviano a significati di fecondità e fertilità.
I totem di Pitta sembrano rinviare poi ai significati simbolici ed astratti legati alla sfera del culto delle stele antropomorfe della nostra età del Rame (III millennio a.C.) diffuse nel territorio di Bovino e Castelluccio dei Sauri.
Gli occhi evidenziati con una profonda incisione nelle teste iconiche litiche della I Età del Ferro (fine X – inizi IX secolo a.C.) rinvenute prevalentemente nell’antico abitato di Monte Saraceno, sul Gargano, ed il pronunciato naso, hanno la stessa pregnanza simbolica degli occhi e dei grandi nasi dei volti dipinti da Pitta.
Sicuramente non sono estranee agli ancestrali modelli figurativi le “sformate immagini in bronzo” con figure antropomorfe bronzee appartenenti ad uno dei più noti rinvenimenti dell’VIII-VII secolo a.C. effettuati nel territorio di Lucera: il celeberrimo Carrello di Lucera, che subì, dopo il rinvenimento agli inizi del XIX secolo, dispersioni ed ora è in gran parte conservato presso l’Ashmolean Museum, University of Oxford: cacciatori e guerrieri deformati, simboli di una primitiva società agricolo-pastorale, sembrano riecheggiare nei soggetti virulenti di Pitta.
Le fatiche quotidiane che si leggono nelle raffigurazioni di uomini incise sulle stele daunie (VII-VI secolo a.C.), forse tra i documenti archeologici più rappresentativi dell’antica Daunia, sono le stesse che si leggono nei corpi densi di pathos di Gianni Pitta.
La medesima forza emotiva degli uomini, pur a distanza di oltre due millenni, ha gli stessi codici rappresentativi: le braccia abnormemente allungate e spesso sollevate a significare le difficoltà del vivere, le mani rappresentate da dita aperte, ascrivibili sia a forme di rappresentazione primitive, ma anche all’istintualità irrazionale insita nell’uomo, che spesso lo allontana dalle imposizioni della razionalità; i capelli irsuti delle stele daunie esposte al Museo Nazionale di Manfredonia e quelli delle figure umane di Pitta rinviano entrambi sì a modelli referenziali di estrema elementarità, ma soprattutto a profondi stati d’animo in cui la paura del vivere è predominante.
Lo spazio temporale solo apparentemente esistente tra le antefisse con Gorgone di tipo orrido, ora ammirabili al MAT di San Severo, antefisse che adornavano i tetti in terracotta delle domus daunie di fine VI – inizi V secolo a.C., avvicinano i totem dell’Artista contemporaneo ai particolari di tipo orrido di quelle stesse antefisse; i reconditi fini apotropaici dell’oggetto antico, che si avvale degli stessi codici rappresentativi usati da Gianni Pitta: bocche mostruose con denti quasi ferini in evidenza fanno arrivare tutte, sia quelle antiche che quelle contemporanee, alle nostre più profonde viscere lo stesso senso di inadeguatezza dell’io, la sofferenza dell’oggi e la paura del domani da parte dell’uomo, antico o moderno che sia.
Alla fine si coglie, nella prorompente vitalità espressiva delle immagini di Giani Pitta, il modo per interrogarsi sugli aspetti escatologici: la vitalità estrema delle figure umane di Pitta, con i suoi colori grondanti, non sono altro che sofferenza che gronda emozione e che si interroga sul fine ultimo della nostra esistenza, come lo fa l’uomo dell’antica Daunia attraverso i suoi simbolismi ideologici e le rappresentazioni del sé che cogliamo nelle stele daunie e nelle antefisse con Gorgoneion di tipo orrido.
Ma non è pessimistica la visione dell’uomo: la rigenerazione e la rinascita delle immagini del nostro Artista è la stessa rappresentata dalle statuette raffiguranti la Grande Madre del VI e V millennio a.C. del nostro territorio daunio, dagli idoli cicladici di circa 5.000 anni fa, dalle stele-totem di Bovino e Castelluccio dei Sauri, dalle statuette fittili micenee del XIV-XIII secolo a.C., dalle “sformate figure di bronzo” del carrello di Lucera, figure antropomorfe in cui le lunghe e sproporzionate braccia sollevate in avanti appartengono ad una visione del mondo in cui il ciclo della vita vuol dire rinascita.
L’Antichità e l’Archeologia: archetipi inconsapevoli nelle opere di Gianni Pitta?
Sicuramente gli appartiene la medesima “fatica del vivere”, le medesime modalità per esorcizzare la morte e la sofferenza quotidiana sottese alle rappresentazioni della figura umana del mondo antico.
E, come per gli uomini dell’Antichità, il suo sguardo è rivolto in avanti e non all’indietro.
Ed in questo modo i simboli del repertorio figurativo presenti nei documenti archeologici entrano di diritto a far parte dell’inconscio mondo inspiratore dei sofferti corpi di Gianni Pitta e dei suoi incisivi segni grondanti.

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Glicemia di colori primari, vivaci e violenti…

di Chiara Canali
Uno dei nuclei di maggior rottura tra le avanguardie del Novecento, considerato al tempo troppo rivoluzionario e trasgressivo, è senza dubbio il Gruppo CoBrA. La sigla deriva dall’acronimo delle prime lettere delle capitali delle nazioni di provenienza dei principali artisti: Copenaghen, Bruxelles e Amsterdam. I principali protagonisti del gruppo sono infatti danesi, belgi e olandesi, tra i quali capeggiano le figure di Asger Jorn, Karel Appel, Costant, Corneille e Pierre Alechinsky.
Cardine della loro poetica, come tentativo di creare una mediazione tra Astrattismo ed Espressionismo, è l’aspirazione ad una espressione spontanea, esplosiva, naturale, che rifiuta ogni restrizione o convenzione a favore di un’arte basata sulla propria libertà creativa ed emotiva. L’enfasi è posta sul mito e sull’immaginario ingenuo dell’infanzia e della pazzia, i soggetti tematici privilegiano le creature fantastiche e mitologiche che trasudano intense emozioni, come rabbia, gioia e ironia. Le forme astratte, geometriche o tache delle correnti precedenti lasciano il posto ad un’arte d’istinto, all’azione esplosiva del gesto e del colore per mezzo di una pittura irruenta ed viscerale, attraverso cui l’artista può realizzare pienamente la propria personalità. Secondo l’affermazione di uno dei suoi principali autori, Karel Appel: “Un quadro non è più una costruzione di colori e di linee, ma un animale, una notte, un grido, un essere umano, uno ed indivisibile”.
Questa descrizione sembra calzare alla perfezione con l’estetica di Gianni Pitta, autore pugliese che ha aderito al gruppo sinestetico internazionale. Il contesto storico è mutato, non siamo più nel dopoguerra quando la visione dell’artista si oppone alla disumanizzazione della seconda guerra mondiale e alla profonda indegnità dell’oppressione e al tempo stesso rifiuta ogni atteggiamento intellettualistico, dogmatico e teorico. Siamo ora nel post- post- modernismo, quando qualsiasi sperimentazione e formula espressiva è ammessa, anche quando non è sostanziata da un profondo sentire e da una intrinseca motivazione. Eppure il rapporto fisico ed umorale con la tela accomuna le ricerche di questi due artisti lontani geograficamente e temporalmente, eppure vicini per sentire, trasportandone le ragioni più intime sul piano di una comunicazione piana e diretta, che opera attraverso il tocco della pittura – ritmo, colori, materia – e va oltre l’impasto per trasmettere la potenza creativa delle forme.
A coloro che osservano la sua opera e gli chiedono “Cosa vuoi dire con questa”? la risposta più frequente di Gianni Pitta è “non lo so”! “Io ignoro e quindi non soffro perché non comprendo, sono vittima, ma se mi emoziona allora funziona, punto e basta”. L’emozione e l’energia vitale sono i cardini fondamentali della sua pratica artistica, assieme alla forza pulsante del colore. Si intitola infatti Glicemia quest’ultima personale, una glicemia che non vuol significare il grado di concentrazione di glucosio nel sangue, ma piuttosto alludere all’alta concentrazione di colore nelle sue opere. I colori primari, vivaci e violenti, sono per l’artista, così come erano per Karel Appel del gruppo CoBrA, il primo passo verso la perdita dell’io, la perdita di se stesso e della sua condizione. Sempre stando alle parole dell’autore olandese: “Per me, energia, forma e comunicazione costituiscono un’unica cosa e le forme assemblate creano un viso. Per esempio, quando guardo una macchina, vedo come una faccia che a sua volta mi guarda fisso. Quando cammino per le strade di una città, vedo forme umane astratte dalle espressioni mutevoli, quasi come se fossero l’ombra di se stesse e della propria esistenza”.
Ancora una volta mi pare ci possa essere un’aderenza quasi perfetta tra gli intenti dei due autori, sebbene a distanza di più di cinquant’anni: le parole pronunciate da Karel Appel sembrano uscire direttamente dalla bocca di Gianni Pitta quando si riferisce ai soggetti dei suoi lavori.
Il viso, il volto, la faccia, umana o animale, sono una costante della sua ricerca, in un miscuglio di figure crude e primitive, dipinte a tinte brillanti. Le sue opere presentano una visione molto personale con la combinazione stranamente inebriante di colori primari vivaci, di uno spesso strato di vernice e di soggetti virulenti, quasi grotteschi. Le superfici dipinte sono composte da pennellate larghe ed uniformi di direzione mutevole che talvolta si aprono per formare dei cerchi, o si restringono per allinearsi formando una specie di puzzle graffiante e incendiario.
Le turbolenze espressive di strani personaggi dai volti contorti e dai denti digrigni, le primitivistiche immagini di facce animalesche e selvaggie richiamano una vena infantile attraverso la quale la natura produce visioni magiche e tradisce i profondi e primigeni istinti dell’artista. Gli esseri fantasiosi dalle grandi teste in Ulisse o Tribale, ne Il guerriero o Il cacciatore, in Meditazione urlata e Un solo pensiero ecc…, sono immersi tra spesse linee di contorno e vivaci cromie in lotta tra di loro come se, ogni qualvolta si delineasse un tema o un soggetto della narrazione, fosse al tempo stesso in corso una forma di scontro o combattimento tra gli elementi primari della pittura. Talvolta le sue forme sono fasciate o racchiuse da un contorno compatto, nero o bianco, benché il colore mantiene una sua libertà e vitalità, una potenza che gli permette di fuoriuscire dal disegno, per produrre un nuovo teatro d’azione e un linguaggio di gestualità. Quel che il gesto esprime è infatti tutto il suo essere presente. Per questo motivo i suoi gesti sono pienamente corporei eppure nello stesso tempo spirituali.
La sua poetica, come quella dei suoi predecessori del Gruppo CoBrA, ha affinità con l’arte dei bambini e con il lavoro fatto da persone con disturbi mentali o con quello realizzato da persone autodidatte. Un altro importante esponente di allora, Costantin, aveva affermato a tal proposito: “Soltanto le persone primitive, i bambini e gli psicopatici potevano contare sulla nostra simpatia”.
In questa regressione al mondo dell’infanzia, che segue i metodi di Dubuffet e anticipa i modi di Baseliz o addirittura di Basquiat, che trae ispirazione dai lavori dei bambini ricchi di sprazzi immediati e senza inibizioni e di forme rudimentali, si ritrova lo stato di interrogazione e di curiosità dell’artista, alla ricerca continua di nuove forme di espressione contro l’ordinario e la routine.
In questa pittura spontanea e aggressiva, che conserva un’impronta figurativa carica di spunti ironici, grotteschi ed infantili, Gianni Pitta esprime la violenza del colore e l’emotività di un gesto edonistico. In questa pittura impulsiva e diretta dove la forma del gesto rimane fresca e incorruttibile per lo spettatore, Gianni Pitta dà sfogo alla sua glicemia di colori voluttuosi e vibranti.

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Segni d’arte http://www.giannipitta.it/2015/09/21/segni-darte/ http://www.giannipitta.it/2015/09/21/segni-darte/#respond Mon, 21 Sep 2015 15:09:01 +0000 http://www.giannipitta.it/?p=331 Segni d’arte di Mario Corfiati Docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di BB AA di Foggia L’attitudine ampiamente sviluppata da Gianni Pitta nell’ambito di una pittura che si rinnova e si genera intorno ai valori del gesto e dell’immediatezza, mostra qui l’irrefrenabile intensità di un’azione che non intende esaurirsi o fermarsi nella sia pur…

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Segni d’arte

di Mario Corfiati

Docente di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di BB AA di Foggia

L’attitudine ampiamente sviluppata da Gianni Pitta nell’ambito di una pittura che si rinnova e si genera intorno ai valori del gesto e dell’immediatezza, mostra qui l’irrefrenabile intensità di un’azione che non intende esaurirsi o fermarsi nella sia pur ricca enfasi della bidimensionalità. Ciò in fondo è sin troppo ovvio, poiché la ricca congerie di energie che l’autore sprigiona, da qualche tempo mostra l’impulso di travalicare il limite della tela, della superficie che, pur affascinando, descrive in se stessa lo spazio dell’immaginazione e dell’illusione. In fondo, Gianni Pitta ha sempre ampliato l’esperienza della creatività e della ricerca di soluzioni confacenti al suo lavoro d’artista, ad una serie di operazioni “collaterali” all’ortodossia pratica della pittura con interventi differenti: oggetti, gadget, piccole sculture, tutto calibrato intorno ai mezzi espressivi del segno, ma con l’evidente invito ad un affioramento della tridimensionalità in senso, direi, puro e primitivo.
La scultura possiede in se il germe del totemismo, della magia, della emblematica volontà creatrice, poiché si espone al mondo e nel mondo contraddicendolo, cioè apportando nell’ambiente il senso dell’umano che si confronta con la natura. Tanto vado considerando, poiché, nell’attuale esposizione, è evidente che l’accento sulla tridimensionalità è certamente prioritario ed affascinante. D’altronde, l’autore qui, come d’abitudine, non rinuncia mai al segno, al colore, all’espressione, ma si fa possedere dall’impeto inscrittivo ed attraversa il territorio della pittura giungendo a testimoniare l’identità del suo gesto anche nelle forme dell’oggetto. Le sue invenzioni nascono ironicamente da blocchi di polistirolo destinati al macero e recuperati ancora una volta come stimolo operativo. Essi vengono scavati con sostanze corrosive, in un processo controllato di erosione, così da manipolare lo scabro materiale ai fini della modellazione: di qui, poi, parte il processo della costruzione, della significazione. Nasce il gioco della apparentemente divertita giustapposizione di pittura e di trash, di emozione e di casualità, di amore e di dissacrazione.
In più di un’occasione abbiamo sottolineato come la pittura di Gianni Pitta si materializzi sotto la ispirata gestualità di natura emotiva che contraddistingue coerentemente tutto il suo percorso artistico, rielaborando la storia dell’espressionismo astratto e alcuni più recenti eventi di tale corrente risalenti agli anni Ottanta e Novanta. In più oggi assistiamo qui ad una esposizione di ‘totem’ artificiali, di supporti casuali che divengono ancora pretesto per una prosecuzione di tale irreversibile passione. A questo proposito, guardiamo pure tali manufatti come giocosa esperienza di pittura primitiva, ma dobbiamo soffermarci anche su un’altra serie di significati che ci vengono non arbitrariamente suggeriti. Gianni Pitta incide scava e dipinge questi blocchi di polistirolo e, appunto, la loro presenza si offre proprio con un lato ancestrale e tribale che è il risultato di un sottrazione estetica, di un lavoro di riduzione alla semplicità. Ma vi è anche un altro aspetto che ci colpisce profondamente: il fatto, cioè, che la figura del totem emani una venerabilità antica emergente dalle lontane zone delle usanze esotiche. In esso è vivo il tema della inviolabilità del sacro, del suo valore sociale e comunitario. E, d’altronde, è stata proprio l’arte europea del primo Novecento a immettere nell’azione creativa l’ingrediente della dissacrazione e dell’ironia estrema, intimamente connesse allo smantellamento della tradizione artistica occidentale. Cosicché nelle elaborazioni di Pitta vi è quella benefica contraddizione che vede l’opposizione di sacro e profano come un’alchimia creativa che sembra divertirci ma che nasconde anche l’oscura ed implicita riflessione su una storia umana che non vive di artificiosa e discutibile evoluzione, ma che richiede continuamente di sacralizzare il mondo, seppure attraverso le imprevedibili vie dell’arte. Rispetto alla generosa effusione di materia pittorica, la materia tridimensionale qui si inalbera in feticci adorni di indizi arcaici, tutti rielaborati tramite l’uso di aggeggi, scarti, attrezzi e così via. I colori e le espressioni si mescolano in una galleria di steli polimeriche leggere ed intriganti che favoleggiano del perduto mondo antico, quello che vedeva fondersi usanze e religiosità, società ed arte, individuale e collettivo in un’unica realtà in cui il sogno ed il mondo si scambiavano i segni di una reciproca alleanza.

 

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Sintomi d’emozione http://www.giannipitta.it/2015/09/21/sintomi-demozione/ http://www.giannipitta.it/2015/09/21/sintomi-demozione/#respond Mon, 21 Sep 2015 15:07:35 +0000 http://www.giannipitta.it/?p=329 Sintomi d’emozione di Mario Corfiati Uno dei più grandi debiti che la cultura occidentale contemporanea deve al trascorso romanticismo, è senza dubbio l’esaltazione della spontaneità e della immediatezza del sentimento. Per quanto il passato Ottocento sia ormai lontano da noi cronologicamente, tuttavia sarebbe impensabile credere che esso sia totalmente svanito, tritato dall’impietoso scorrere del tempo…

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Sintomi d’emozione

di Mario Corfiati
Uno dei più grandi debiti che la cultura occidentale contemporanea deve al trascorso romanticismo, è senza dubbio l’esaltazione della spontaneità e della immediatezza del sentimento. Per quanto il passato Ottocento sia ormai lontano da noi cronologicamente, tuttavia sarebbe impensabile credere che esso sia totalmente svanito, tritato dall’impietoso scorrere del tempo e dalla rapidità dei mutamenti storici. Al contrario, a guardare bene, si potrebbe perfino rilevare che alcune sue caratteristiche si siano sviluppate oltre ogni aspettativa e siano vivamente operanti fra noi, sebbene magari esaltate, talvolta esasperate e portate all’estremo dai vividi contrasti che caratterizzano il nostro tormentato presente. E non solo: il ‘contemporaneo’ si distingue da ciò che non lo è proprio per la corrente onnivora propensione ad agitare le acque, all’inquieta ricerca della citazione, al rifiuto dell’obsolescenza in quanto segno della fine. Nulla in realtà termina, ma ogni stile può servire a rientrare nella subitanea e sincronica riedizione del passato come un cinico sogno ad occhi aperti, forse come una moda, come flusso psicologico tra memoria ed atto, come un riferimento di costume rispetto ad un presente alla continua ricerca di se stesso. Mi riferisco, ovviamente, al clima artistico, alle valutazioni possibili intorno alle variabili estetiche che si trasformano con incredibile velocità sotto i nostri occhi, quasi fossero esse stesse elementi integranti dei processi creativi e performativi e non, magari, parte del metasistema critico che sostiene la comunicazione sul complesso dell’arte.

Quando cominciamo ad aggirarci fra i quadri che Gianni Pitta ha scelto per questa sua esposizione, al di là della naturale piacevolezza che essi ispirano come manufatti, le domande che ci sorgono sono proprio di questa natura: è possibile cogliere in queste opere un senso attuale e condivisibile che emerga dalla loro sostanza pittorica? Vi è una identità dell’artista collocabile senza azzardate forzature nella corrente dell’attualità? È corretto cercare una collocazione critica ad una espressione personale che per sua natura rifugge dalla cogente analisi stilistica e formale? Purtroppo, non tutte queste domande possono trovare risposta, poiché è fin troppo ovvio, come vedremo, che qui l’ispirazione creativa non mira a rendersi riconoscibile, ma a stabilire una empatia profonda fra l’emersione dei contenuti artistici e la propensione alla loro fruizione, solo in parte mediata dalla interpretazione. Possiamo inizialmente considerare che, proprio il fertile terreno del patrimonio artistico a noi prossimo non esclude nulla in modo definitivo, poiché la storia stessa non si presenta più come un continuum fattuale irreversibile, ma piuttosto come un genere complesso di eventi non necessariamente collegati fra loro da un cemento ideologico: cosicché le valutazioni critiche sull’origine dei fatti artistici non fanno altro che considerare possibile, come è giusto, che ogni evento estetico di rilievo lasci emergere preminenze stilistiche ed espressive che diventano parte delle possibilità e delle opportunità creative individuali successive. L’Action Painting, ad esempio, non esaurisce il proprio successo solo nell’epoca in cui è nato e si è sviluppato, ma prelude ad una sua eventuale ridefinizione poiché il valore della dimensione psicologica e miocinetica (termine, quest’ultimo, coniato da Gillo Dorfles) diviene una acquisizione sulla strada del costante arricchimento sperimentale del gesto artistico. Si tratta di dimensioni referenziali che, al di là delle opportune giustificazioni storiche circoscritte, travalicano i confini della narrazione localizzata per espandersi verso le terre emerse del significato, verso le zone illuminate del simbolo, proprio in qualità di scoperte inalterabili e decisive che divengono autentiche macchine semantiche, propagatrici di senso e di comunicabilità. Sebbene  ciò possa configgere con la convinzione che la costante ricerca del nuovo debba lasciare dietro di sé solo gli sterili residui di una  forma consunta dal suo stesso trionfo, la  contemporaneità favorisce paradossalmente addirittura i pretesti per una archeologia del recentissimo passato, fornendo dignità scientifica e culturale a ciò che è accaduto ieri, trasformando il mondo in un immenso repertorio di oggetti e di episodi che mostrano la variegata ampiezza di una umanità senza confini.

E, infatti, le opere qui esposte dimostrano la validità dell’atto espressivo di Gianni Pitta, della sua incontenibile voglia di esprimersi in una azione gestuale e segnica non ancorata al mondo mitico dell’espressionismo americano, ma decisamente contaminata dalle esperienze pittoriche degli anni ottanta dello scorso secolo, a suo tempo rinvigorita, se così possiamo dire, dal vorace ed ambizioso coraggio del nuovo espressionismo europeo che ha contrassegnato il ritorno alla pittura in un contesto che l’aveva vista scomparire. Le immagini sono palpabili e rimarchevoli, ogni quadro restituisce una istantanea del percorso emotivo dell’autore raccolto nella concentrazione attiva dell’esecuzione, proiettato solo nell’artigianale passione che lo spinge a rivelare le icone del suo universo. Che, inoltre, non sembrano solo indizi di un percorso personale, ma appaiono invece allargarsi verso temi più generali, che sono quelli dell’invito ad una vivacità creativa forte e non rassegnata, al sincero omaggio verso una simbologia del colore e del segno di natura premoderna e priva di artefatti, che non siano quelli dell’esperienza tecnica di una pittura intrisa di genuinità e primitivismo. E così torniamo a quelle domande poste all’inizio e vediamo che davvero l’autore si pone nell’attualità senza farsene problema, non lasciandosi influenzare dalla fredda impassibilità di cui si è resa interprete tanta arte contemporanea, fagocitata anche dall’ansia planetaria di proporre il nuovo, senza magari accorgersi che gli orizzonti tecnologici, che certamente possono abbassare la temperatura empatica del corpo creativo, sono solo una delle possibili opzioni della sperimentazione artistica contemporanea, da cui non sembra, per ora, essersi eclissato l’archetipo del demiurgo.

Infatti, qualora si voglia entrare meglio nel vivo delle immagini qui in mostra, è impossibile non avvertire di quanta parte della produzione di Gianni Pitta sia ispirata dal tema del gioco, inteso come attività ludica, da un lato, e, dall’altro, come emersione di contenuti volutamente ripescati all’interno della moltitudine iconica individuale, da una attività comunicativa contagiosamente elementare, sorridente, briosa. Il carattere tonale del suo cromatismo è forte ed aperto, come è proprio di tante espressioni infantili che non si misurano sull’abilità naturalistica, ma sulla fresca ed immediata necessità di trasferire nel mondo l’incanto di una visione fantastica ed accattivante, perché personale ed incondizionata. Veniamo sommersi da un insieme di proposte che spaziano entro un arcobaleno di emozioni in cui trovano posto figure delineate con sorprendente naturalezza, sullo sfondo di quinte bidimensionali mai ripetitive. Il gioco, si sa, è una funzione che contiene un senso. Si oppone alla serietà, non è folle e, benché attività dello spirito, non contiene una funzione morale, né virtù, né peccato. Ciò che più interessa, riferendoci all’arte, è che il gioco che la anima è innanzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco non è la vita “ordinaria”, ma si allontana da questa per entrare in un’attività con finalità proprie ed è essenzialmente inutile, proprio come l’arte. Essi, in pratica, non servono, nel senso che in una società dove tutto è finalizzato a qualcosa, gioco ed arte contengono entrambi il senso della libertà:  simili ma non identici, si ritrovano in un percorso parallelo si accompagnano appagandosi della loro leggera inconsistenza  afinalistica . L’arte è un atto libero, non obbligato, appunto come il gioco. Quest’ultimo è situato “al di fuori della razionalità della vita pratica, al di fuori della sfera del bisogno e dell’utile” (Huizinga), oppure, per citare Schiller, possiamo ricordare che “(…) fra tutte le condizioni dell’uomo proprio il gioco e solo il gioco lo rende compiuto (…)”.  Naturalmente, il senso profondo di questa similarità fra gioco ed arte risiede essenzialmente nella considerazione, tutta contemporanea, che la freschezza creativa derivi dal sapersi decondizionare dalle stringenti regole dell’ovvietà e della insignificante catena del senso comune che vorrebbe piegare l’originalità alle regole della massificazione. Tale situazione, nella storia dell’arte recente, ha costituito il fondamento di ogni nuovo linguaggio artistico, che è sempre partito da un recupero di elementi ‘puri’. Oscar Wilde diceva: “L’arte (…) ha le sue origini nel lavoro di pura immaginazione e di diletto che si occupa dell’irreale e del non esistente. È questo il suo primo stadio. Poi la vita subisce il fascino di questa nuova meraviglia e chiede di essere accolta entro il cerchio magico.” Il gioco, insomma, e così l’arte che gli si accosta, magicamente lasciano emergere la bellezza dell’immaginazione e della innocente verità attingendo agli strati profondi dell’archetipo e delle modalità aprioristiche della realizzazione. Saper fare ciò è dunque un talento, un’abilità innata, un intreccio fra istinto e fantasia, la rivelazione del legame che ci unisce al passato più remoto della nostra natura da cui emergono le figure fondamentali della nostra umanità: gioia, rabbia, amore, odio, dolcezza, ironia, affetto, conoscenza, perplessità … e così via.

Nelle immagini che Gianni Pitta ci offre, dunque, si percepisce chiaramente la prorompente vitalità espressiva di un artista che ha scelto di farsi invocare, è il caso di dirlo, dalle forze schiette dell’invenzione immediata di forme nate dal suo immaginifico universo, aperto alla condivisione di quelle emozioni così rare oggi, fatte di ostinata e disarmante comunicativa, immerse nello spazio fantasioso di un mondo intimo che aspira alla bellezza della passione.

 

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Black is Black http://www.giannipitta.it/2015/09/21/black-is-black/ http://www.giannipitta.it/2015/09/21/black-is-black/#respond Mon, 21 Sep 2015 15:06:40 +0000 http://www.giannipitta.it/?p=327  Black is Black  di Mario Corfiati La sequela di opere con cui Gianni Pitta struttura questa sua nuova esposizione traccia una netta linea di separazione con tutta la sua precedente carriera di artista. Improvvisamente, come in un repentino cambiamento di rotta, l’Autore espone una serie di immagini, oggetti e tele , interamente nere. Tale inversione…

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 Black is Black

 di Mario Corfiati
La sequela di opere con cui Gianni Pitta struttura questa sua nuova esposizione traccia una netta linea di separazione con tutta la sua precedente carriera di artista. Improvvisamente, come in un repentino cambiamento di rotta, l’Autore espone una serie di immagini, oggetti e tele , interamente nere. Tale inversione di marcia è tanto più sconcertante, in quanto Gianni è stato sempre un fautore del colore, un vero appassionato delle variegate possibilità operative offerte da una ‘tavolozza’ ricca, suadente e divertita, ma comunque sempre fondata sull’omaggio ad un cromatismo vivace e a volte anche esasperato. Dai “Cuori”, a “Glicemia”, fino a “Mediamente Fragile”, abbiamo sempre visto un vivace incontro di emozioni e di esplosioni coloristiche, condite anche da un gradiente di elementi un po’ ‘magici’ emersi da un background di spontaneo primitivismo. Forse proprio quel percorso che si dipanava fra l’espressione ed il colore, fra la leggerezza del sentimento ed il suo compiacimento estetico, ha portato Gianni Pitta a riflettere sulle cose dell’arte e del mondo e, in ogni caso, non potendo rinunciare all’azione, tutta la sua creatività si è audacemente riversata in una inventiva che testimonia, in questo caso, il sentire la necessità del nero come fattore inerente all’atto artistico che intende rinnovarsi. Una specie di sfida verso la propria indole e verso l’idea stessa di visione legata al senso comune ed anche alle comuni aspettative. Proprio per questo, l’attuale ‘Black Experience’ tende a coniugare il tema della monocromia con quello della conoscenza in itinere, laddove l’emozione ed il desiderio del nuovo tentano territori sconosciuti. L’Autore si è avviato lungo una strada che lo porta a confrontarsi con se stesso, con le sue proprie possibilità tecniche, fatto, peraltro, a mio avviso, pienamente riuscito. Infatti, qui vediamo concretamente un’operazione di per sé delicata in cui Gianni Pitta dimostra una eccellente perizia proprio laddove il suo laboratorio continua ad essere ricco di esiti diversi, nel senso che vi nascono opere bidimensionali ed oggetti.
Finora il nero, nella sua manifesta corposità, abbiamo potuto soprattutto vederlo in alcune memorabili realizzazioni della Optical Art, nelle Pitture Nere di Goya, nel Minimalismo storico e in parte del grafismo estremo introdotto nel secondo dopoguerra. L’intera collezione qui in mostra enuncia un deciso desiderio di ritorno alla semplicità estetica e, a mio avviso, anche un commento sottile sulla pletora di immagini che invadono il nostro quotidiano e da cui è salutare evadere per restituire verità alla dimensione artistica che, seppure intellettualmente addolcita da una ragionevole tolleranza verso l’assenza di senso, chiede spesso di tornare ad avere una funzione di dialogo e di comunicazione. In un sistema ormai interamente basato sulla esternazione dell’informazione, privo di ogni attenzione verso la natura simbolica del segno, l’ evidenza si frammenta continuamente in una sequenza irrefrenabile di immagini mediatiche attraverso cui è pressoché impossibile rintracciare una trama formale che favorisca un percorso di comprensione delle immagini stesse, nella loro ormai assente sostanza naturale. Il sogno dell’uomo occidentale di dominare la natura e di controllarla, ha investito il senso stesso della comunicazione ed ha comportato anche la diffusione di una cultura quotidiana, succube dell’advertisement, che ambisce alla massima ovvietà per favorire messaggi socialmente condivisi ed inequivoci. Naturalmente, la realtà pulsante è ben più complessa e l’arte contemporanea si è sempre posta come fattore dialettico nella riflessione sulla natura dell’immagine, evitando molto spesso di farsi assimilare alla semplificazione delle certezze.
Così Gianni Pitta si sottrae alla consuetudine un po’ ottimistica del colore, alla sua stessa attitudine artistica professata fino a non molto tempo fa, si propone un rinnovamento, forse un maggese dell’anima e dell’ispirazione, e chiede spazio a se stesso, alla sua necessità di riflessione e si avventura a ritrovare il senso della visione in un mare di tinta nera, di smalti e vernici scuri e tetri, teatralmente sparsi su orditure talvolta a malapena percettibili che si snodano di superficie in superficie obbligando lo sguardo a decifrarne la struttura ed la forma.
Non si può non pensare al nero come all’assorbimento di tutti i colori, totale somma di cromie senza riflesso. Il nero è il buio, l’origine, il prima di tutte le cose. E’ la notte. La magia pericolosa, la paura dei fanciulli, il cielo profondo dell’universo. Il nero è l’oblio, ma anche la calda culla della terra che accoglie il seme. Il nero è la destinazione del salto, coraggioso o folle, che rischia il vuoto. E’ l’eleganza, la silhouette delle ombre cinesi, l’estremo infrarosso dello spettro, l’Heavy Metal, il sonno senza sogni, la speranza della luce… Tutte le opere elaborate per questa mostra espongono l’interrogativo della forma che tenta di emergere dall’affermazione perentoria ed un po’ misteriosa del colore nero: come alcuni funerei simboli floreali, gambi di sterpi accostati l’uno all’altro, radici filiformi ramificate invischiate nella pece e negli smalti, residui di vita alla ricerca di un nuovo palpito, costellazioni minerali di ghiaia incollata saldamente ai supporti… E, su tutto, l’ironia di un’azione che gioca con se stessa, con il mito della creazione e con il sommesso sorriso di qualche macchia di colore, posta qua e là a ricordare il passato e, forse a preannunciare un imprevedibile futuro.

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PORTFOLIO http://www.giannipitta.it/2015/09/21/portfolio/ Mon, 21 Sep 2015 14:37:10 +0000 http://www.giannipitta.it/?p=316 L'articolo PORTFOLIO sembra essere il primo su Gianni Pitta.

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Paradossi iconici… http://www.giannipitta.it/2015/01/21/paradossi-iconici-di-gianni-pitta/ http://www.giannipitta.it/2015/01/21/paradossi-iconici-di-gianni-pitta/#respond Tue, 20 Jan 2015 23:00:58 +0000 http://www.giannipitta.it/?p=337 Paradossi iconici di Gianni Pitta di Dario Damato L’operazione di totale sdoganamento delle Arti Visive del Novecento da quelle del secolo precedente, quindi da ogni precedente lusinga e richiamo estetico/formale, derivante dallo spegnimento e scioglimento dagli ultimi dettami, romantico/espressionistici, classico/realistici e impressionistici del tardo Ottocento, vide impegnati in questa operazione di liberazione e rinnovamento, una…

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Paradossi iconici di Gianni Pitta

Dario Damatodi Dario Damato
L’operazione di totale sdoganamento delle Arti Visive del Novecento da quelle del secolo precedente, quindi da ogni precedente lusinga e richiamo estetico/formale, derivante dallo spegnimento e scioglimento dagli ultimi dettami, romantico/espressionistici, classico/realistici e impressionistici del tardo Ottocento, vide impegnati in questa operazione di liberazione e rinnovamento, una nutritissima schiera di intellettuali e di artisti attivi durante l’arco di tutto il Novecento. Un arco grande di operatori che va dalla Musica alla Letteratura, alla Politica, alle Arti Visive e oltre queste, alla Moda, all’Arredamento, all’Urbanistica, coinvolgendo in questo rinnovamento, usi e costumi di una intera epoca, disegnando a tinte forti la mappa di una cultura e di un tempo mai più ripetibili.

Possiamo affermare che artisti come Jasper Johns, Picasso, Magritte e Duchamp prima, Close, Hanson, De Andrea, Rauschemberg, Jim Dine, Perilli, Schifano poi, con l’aggiunta di graffitisti del calibro di Michel Basquiat, segnarono tutti insieme, (con le dilatazioni  iconiche da loro dipinte e rappresentate sino ai limiti estremi della oggettivazione iconografica, terza e quarta dimensione) il confine e lo spartiacque del fare Arte, tra Ottocento e Novecento.

Gianni Pitta si muove partendo da questo tipo di indagine dilatandone ancora e ulteriormente il campo di ricerca scelto dei suoi predecessori, estremizzando la ricerca sia sul piano estetico/percettivo che sul piano iconico e pittorico/rappresentativo. Il tracciato  segnato e  percorso dagli artisti che lo hanno preceduto, diventa pertanto, per il nostro operatore, solo un punto di partenza , non certo un arrivo, quindi il pretesto del suo cammino artistico, cammino facilmente riconoscibile perché storicamente accertato.

Il nostro Artista infatti, spostando e dilatando ulteriormente e volutamente la sua operazione formale/rappresentativa, rispetto a quella dei suoi predecessori, costruisce ad uso proprio, una operazione di rinnovamento nel fare pittura, ristrutturandola, rimodellandola e attualizzandola, per poi ricollocarla, ancora una volta, nelle trincee scavate dall’Arte contemporanea. Scelte certamente non semplici né facili quelle di Pitta perché fortemente dilatate ed estremizzate, ma ancora riservate al fare pittura, al fare scultura anche se inserite e volutamente sistemate ai bordi estremi del produrre Arte.

Operando in tal modo Pitta attualizza una scelta di campo coerente con i temi selezionati per la sua ricerca, egli è infatti convinto, per fiuto artistico e per antico sapere, che tale scelta possa essere messa in maggiore evidenza e ancora meglio capita, se introdotta in quella zona del sistema dell’Arte operativo nella dimensione primaria dell’Arte stessa, cioè in un tessuto strettamente pittorico. Seguendo questa scelta artistica, la pittura del nostro operatore diventa necessariamente intransitiva, autoreferenziale e autoriflessiva, perché l’impianto pittorico da lui costruito, risulta essere  la naturale continuazione se pur estremizzata, della produzione culturale degli ultimi anni del Novecento nazionale ed internazionale; cosa che risulta particolarmente evidente, dopo una valutazione approfondita dei risultati iconici ottenuti dall’Artista con i procedimenti grafico/cromatici, messi in atto nella esecuzione oggettiva delle sue opere.

Da ciò che sin qui si è analizzato, risulta altresì evidente che l’opera di Gianni Pitta è il frutto di una attenta analisi dei valori pittorici  attivi nell’area del post/moderno e nella zona post/estetica, analisi critica fatta e condotta dal Pitta con un sapiente procedimento di destrutturazione e ricostruzione dei codici linguistici che avevano preceduto la realizzazione del condotto pittorico che userà opera per opera. Operazione critica questa resasi necessaria  per aggiornare, riattualizzare e ritualizzare le unità linguistiche usate dagli artisti che lo avevano preceduto. Risulta determinante oggi, per leggere il percorso seguito dal nostro artista, e per capire bene l’importanza storica dell’analisi pittorica da lui adottata nel fare arte, mettere sotto faro critico i suoi lavori più recenti,  valutando con attenzione oltre che i modelli artistici da lui adottati, cosa che sin qui si è fatto, anche e soprattutto la costruzione e l’impianto  generale dell’opera da lui progettata concettualmente prima e poi dipinta in oggetto.

Pitta nella esecuzione delle sue ultime opere è stato capace di costruirle, coniugando in un solo impianto artistico, in un unico  percorso e teorema pittorico, i capitoli della grande astrazione, con le lezioni del grande super/realismo/altro, quindi capace di  tracciare ancora una nuova via di ricerca, dando impulso e speranza alle generazioni artistiche più giovani, dimostrando di fatto,  che la ricerca può continuare e che la via da lui percorsa può essere ancora l’inizio di un nuovo tracciato artistico e ciò non è poca cosa.

 

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